Le automobili a idrogeno, che utilizzano le celle a combustibile (fuel cell) al posto delle batterie per alimentare un motore elettrico, sono una realtà su cui alcuni produttori stanno investendo. Toyota e Hyundai sembrano crederci di più, con i modelli in commercio come Mirai e Nexo, mentre altri hanno rallentato o abbandonato lo sviluppo, è il caso di Daimler, Bmw o Volkswagen.
Nonostante ciò si continua a parlare della svolta dell’idrogeno, anche grazie ai cospicui investimenti previsti dall’Unione Europea, che toccheranno molti settori, incluso quello dei trasporti. Ma nella mobilità su automobili, ha senso parlare di idrogeno? Cerchiamo di passare in rassegna i molteplici aspetti da considerare per una valutazione.
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Vantaggi: Contenuto energetico; Velocità di rifornimento; Elevato potere antidetonante
Svantaggi: Costo del rifornimento, Bassa densità volumetrica di energia a condizioni ambiente; Energia richiesta per produrre idrogeno, Carbon neutrality, trasporto, vendita, distribuzione; Produzione presso i distributori; Generazione ossidi di azoto; Alta infiammabilità; Bassa densità di potenza celle combustibile
I vantaggi dell’idrogeno nelle automobili
Contenuto energetico in rapporto al peso
Bruciare completamente 1 kg di idrogeno produce circa 33 kWh, quasi il triplo del calore liberato dalla combustione di 1 kg di benzina, gasolio o Gpl, e oltre il doppio del calore liberato dalla combustione di 1 kg di metano. Attenzione perchè stiamo parlando di massa (kg) e non di volume (litri): si tratta di un aspetto non trascurabile, come vedremo. Altro aspetto da non sottovalutare è che stiamo parlando della massa del solo combustibile (l’idrogeno), trascurando la massa del serbatoio necessario per contenerlo.
Velocità di rifornimento
Anche se gli idrocarburi liquidi restano inarrivabili in termini di rapidità e praticità di rifornimento, anche fare un pieno di gas non richiede poi così tanto tempo, come ben sanno gli automobilisti che vanno a metano. Questo vale anche per l’idrogeno, seppure con qualche cautela in più date le elevate pressioni in gioco: i più recenti modelli a idrogeno, la Toyota Mirai e la Hyundai Nexo, dichiarano entrambi tempi di rifornimento dell’ordine dei 3-5 minuti, durante i quali vengono trasferiti nelle bombole a bordo circa 5-6 kg di idrogeno a circa 700 bar.

L’autonomia riguadagnata in quei 5 minuti è dell’ordine dei 600 km nel ciclo misto Wltp: un recupero di autonomia di circa 120 km per ogni minuto trascorso. Nello stesso tempo di 5 minuti, nelle condizioni più favorevoli, un’auto elettrica a batteria come la Porsche Taycan, collegata a una colonnina Ionity DC fast in modalità 800 V e caricando alla massima potenza supportata dalla vettura (270 kW), può assorbire una energia di 22,5 kWh circa, corrispondenti a circa 100 km di autonomia recuperata. Analogamente, in condizioni ideali (batteria inizialmente molto scarica e alla giusta temperatura) una Tesla Model 3 collegata a un Supercharger V3 (250 kW max) recupera circa 250 km di autonomia nei primi 10 minuti (dopodichè il ritmo di ricarica rallenta fisiologicamente). In entrambi i casi, circa 20 km al minuto di autonomia recuperata. In conclusione, rifornire di idrogeno di un’auto Fcev è come minimo 5-6 volte più veloce rispetto alle auto elettriche oggi più veloci a ricaricarsi (e con l’avvicinarsi della fine della ricarica, le elettriche rallentano marcatamente la velocità di ricarica quindi il gap a loro svantaggio si allarga ulteriormente).
Elevato potere antidetonante
Uno dei due modi di sfruttare l’idrogeno per muovere un veicolo, accanto al suo utilizzo in una fuel cell, è quello di usarlo come carburante in un normale motore a ciclo Otto (il classico “benzina”). Nei motori a ciclo Otto un parametro importante è il numero di ottano (Ron), convenzionalmente usato per misurare la resistenza alla detonazione di un carburante. Più è alto, più possiamo alzare il rapporto di compressione del motore senza pericolo che “batta in testa”, fenomeno indesiderabile perché danneggia i pistoni e riduce la potenza utile producibile. L’efficienza di un ciclo termodinamico è definita come il rapporto fra il lavoro prodotto e il calore assorbito. Per il ciclo di Carnot (due isoterme e due adiabatiche) si dimostra che in condizioni ideali questo rapporto dipende solo dalle temperature della sorgente calda e della sorgente fredda. Invece, per il ciclo Otto dei motori a benzina, metano, Gpl e idrogeno, che trascurando le fasi di aspirazione e scarico è costituito da due isocore e da due adiabatiche, si dimostra che in condizioni ideali il rendimento dipende solo dal rapporto di compressione; quindi riuscire ad aumentare il rapporto di compressione del motore significa aumentare il rapporto fra le due temperature e quindi la sua efficienza termodinamica. Aumentare il rapporto di compressione, di per sè, sarebbe una questione puramente geometrica legata alla conformazione e alle misure dei manovellismi interni del motore (oltre che subordinata alla capacità dei materiali di resistere alla maggior sollecitazione a cui verrebbero sottoposti). Il problema è che aumentando oltre un certo limite il rapporto di compressione avviene che, la miscela aria-benzina raggiunge condizioni di temperatura e pressione alle quali anzichè dare luogo a una combustione veloce ma graduale, esplode improvvisamente e spontaneamente, senza aspettare, per così dire, il “via libera” della candela. Se questo accade prima del punto morto superiore, il pistone viene addirittura frenato nella sua risalita, e il motore tende ad arrestarsi (o comunque perde potenza). Se accade poco prima del punto morto superiore, l’onda d’urto può danneggiare il pistone che può anche cedere e perforarsi. Quindi è importante che il combustibile abbia proprietà chimiche tale da farlo resistere bene alla detonazione spontanea anche se fortemente compresso, consentendo ai progettisti di aumentare il rapporto di compressione senza danni. Questa via consente di produrre più lavoro per ogni ciclo rispetto a un motore meno compresso. Quindi a parità di cilindrata e di consumo si può avere un motore più potente e/o più efficiente.
Ebbene l’idrogeno si comporta molto bene da questo punto di vista, dato che, rispetto al numero di ottano del Gpl (93), della comune benzina (95) o del metano (120), vanta il numero di ottano più alto, ben 130; è quindi il carburante più antidetonante di cui si disponga, e quindi quello che in teoria consente di alzare di più, in un motore a ciclo Otto, il rapporto di compressione, e di conseguenza di elevare il suo rendimento termodinamico più che con qualunque altro carburante (a parità di ciclo, e trascurando ogni altro fattore).
Gli svantaggi dell’idrogeno nelle automobili
Costo del rifornimento
Per quanto riguarda il costo, un kg di idrogeno viene attualmente venduto in Italia a circa 13-14 euro/kg; un pieno per la Mirai o per la Nexo (5.6-6.3 kg) viene quindi a costare intorno agli 80 euro, con un costo di circa 13 centesimi a km.

Per contro, ad una Tesla Model 3 caricata al Supercharger (attualmente 33 cent/kWh), dato che nel ciclo medio Wltp percorre circa 7,5 km/kWh, percorrere un chilometro viene a costare circa 4,5 cent, quasi un terzo rispetto alle due auto FCEV. E per chi può caricare di notte a casa, lentamente ma a tariffa residenziale (circa 20 cent/kWh), il costo al chilometro per una elettrica scende ulteriormente a meno di 3 centesimi, senza contare la comodità di trovare l’auto sempre carica ogni mattina e di non dover andare a cercare un posto di rifornimento attrezzato per l’idrogeno.
Bassa densità volumetrica di energia a condizioni ambiente
È vero che l’idrogeno ha una densità di energia in rapporto al peso (o “gravimetrica”) molto elevata, ma la sua densità di energia in rapporto al volume (o “volumetrica”) è invece bassissima, dato che a condizioni ambiente l’idrogeno libero è un aeriforme poco denso (a 1 atm e 25 °C, appena 89 grammi per metro cubo) e non un liquido condensato come la benzina o il gasolio. Un litro di idrogeno a 25 °C e 1 atmosfera, se bruciato completamente, libera una quantità di calore che è solo lo 0,03% di quella liberata bruciando un litro di benzina. Se facciamo il confronto solo fra aeriformi, vediamo che a parità di volume, pressione e temperatura l’idrogeno è battuto perfino dal comunissimo metano, il quale, se bruciato, libera una energia quasi quadrupla di quella liberata da un pari volume di idrogeno nelle stesse condizioni di pressione e temperatura. Questo anche perchè a parità di pressione e temperatura il metano (la cui molecola ha una massa maggiore, peso atomico circa 16, dato che contiene un atomo di carbonio e 4 atomi d’idrogeno e ognuno di questi 5 atomi è disponibile per reagire con l’ossigeno) ha una densità maggiore di quella dell’idrogeno (la cui molecola ha peso atomico circa 2 dato che contiene due atomi di idrogeno).
La bassa densità volumetrica di energia dell’idrogeno rispetto ad altri carburanti anche gassosi costituisce quindi un problema sia per lo stoccaggio sia per l’utilizzo nel motore.
L’idrogeno è molto meno denso del metano, come abbiamo visto, e naturalmente ancora meno denso rispetto a un idrocarburo liquido finemente nebulizzato. Se l’approccio è quello di usare l’idrogeno in un motore a combustione interna, allora dobbiamo considerare che in camera di scoppio devono trovare spazio insieme aria e carburante; per sfruttare l’elevato contenuto energetico dell’idrogeno (in rapporto al peso) dobbiamo quindi iniettarlo fortemente compresso. Sia perchè ne entri abbastanza per essere competitivo con un analogo riempimento a base (per esempio) di metano, sia perchè in camera di scoppio deve avanzare anche spazio sufficiente per l’aria, nella quale (al 21% di concentrazione, il resto è quasi solo azoto) è contenuto l’ossigeno necessario per bruciare l’idrogeno. Quindi, rispetto al metano, per ottenere con idrogeno la stessa generazione di calore in camera di combustione (e di conseguenza la stessa pressione media effettiva sul pistone, e quindi la stessa coppia) dovremo iniettare l’idrogeno a una pressione varie volte maggiore di quella a cui inietteremmo il metano.
Anche per lo stoccaggio naturalmente la prima idea che viene in mente per ovviare al problema della bassa densità volumetrica di energia dell’idrogeno è ricorrere alla compressione, come già si fa per il metano. Tuttavia, mentre per il metano si usano solitamente pressioni di 200 bar, con l’idrogeno per avere un paragonabile contenuto energetico in rapporto al volume si deve salire di molto con la pressione, indicativamente a 700 bar. Più pressione richiede energia meccanica per comprimere il gas (per portarlo a 700 bar occorre spendere una energia che è stimabile intorno al 15% del contenuto energetico dell’idrogeno che si sta comprimendo!). Più pressione, inoltre, a livello di stoccaggio richiede una bombola più solida, quindi pareti più spesse, più materiale, più peso (si pensi solo alla differenza fra le bombole per il GPL, da 10 bar, e quelle per il metano, da 200 bar). Inoltre è difficile costruire una bombola di resistenza e tenuta adeguata in forme astruse; viene più facile se la forma della bombola ha almeno simmetria circolare. Insomma, scordarsi bombole piatte da mettere sotto il pavimento come fossero pacchi batterie, oppure sagomate come dei serbatoi di benzina in plastica che si intrufolano in tutte le pieghe del telaio per sfruttare al massimo lo spazio.
Fortunatamente la tecnologia dei materiali viene in aiuto, consentendo di evitare l’uso di serbatoi metallici a parità di sicurezza e di pressione sopportabile.
Per dare un riferimento, nella prima generazione della Toyota Mirai l’idrogeno (5 kg in tutto per un contenuto energetico complessivo di 150 kWh circa) era immagazzinato a 700 atmosfere di pressione in due serbatoi di materiale plastico rinforzato con fibre di carbonio, per un peso totale di meno di 90 kg. Il modello 2021 usa uno schema su 3 serbatoi per una capacità totale di 5.4 kg di idrogeno. Si tratta comunque, anche sull’evolutissima Mirai, di tre grosse bombole di forma cilindrica, intorno alle quali praticamente si è costruito il corpo vettura (e il passeggero centrale posteriore non ringrazia).

Si può anche pensare di liquefare l’idrogeno per ridurne il volume, ma sfortunatamente a pressione ambiente la temperatura di ebollizione è a -252 gradi e raffreddare così tanto il gas richiede, anche con processi efficienti, una energia pari a circa il 30% del suo contenuto energetico. Anche le tubazioni coinvolte, ad esempio durante il rifornimento, devono essere raffreddate a temperature simili, altrimenti diventerebbero luogo di riscaldamento e rigassificazione dell’idrogeno. E se il serbatoio dovesse contenere l’idrogeno in forma liquida, dovrebbe allora mantenere la temperatura a quel livello anche durante il viaggio, la sosta, etc..
Forme alternative di stoccaggio, anzichè basarsi su pesanti bombole di idrogeno gassoso sotto pressione, o su serbatoi criogenici a temperature difficilmente compatibili con un veicolo che alla fine riesca anche a circolare su strada, sfruttano reazioni chimiche e si basano su serbatoi riempiti di composti (a base, per esempio, di magnesio, sodio, litio, alluminio o calcio) in grado di reagire con l’idrogeno formando idruri metallici stabili a bassa pressione. Tuttavia la quantità di idruri metallici necessaria per intrappolare una certa quantità di idrogeno è elevata, dato che valori tipici di percentuale in peso dell’idrogeno catturabile da parte di un serbatoio a idruri metallici sono compresi, a seconda delle sostanze utilizzate, fra il 2-3% e il 9-10%. Questi corrispondono a un intervallo di circa 800-3000 Wh/kg, molto interessante dato che è ben superiore a quello di un battery pack al Litio di ottima qualità commerciale attuale (ad es. 260 Wh/kg stimati per le celle 2170 della Tesla Model 3). I valori più elevati sono raggiunti da alcuni materiali, particolarmente Magnesio e composti del Boro, che sono i più performanti come cattura percentuale in peso ma per lavorare alle pressioni desiderabili possono presentare svantaggi come quello di richiedere temperature elevate in fase di idrogenazione o deidrogenazione (anche 1000 Kelvin) oppure mettono in gioco energie di idrogenazione e deidrogenazione non trascurabili, oppure ancora comportano lunghi tempi (ore) per i processi di deidrogenazione e reidrogenazione. Oppure ancora il materiale del serbatoio subisce un degrado dopo un numero limitato di cicli di idrogenazione e deidrogenazione, peggiorando progressivamente sia nella capacità sia nella velocità di assorbimento e rilascio dell’idrogeno. Altri materiali, come certe leghe di terre rare, eccellono nelle condizioni di pressione ed energia e nella densità volumetrica di idrogeno catturabile, però a causa dell’elevato peso specifico della lega catturante hanno una scadente densità gravimetrica. Lavorazioni basate sull’intelligente impiego di nanostrutture possono agire da coadiuvanti, facilitando i processi diffusivi dell’idrogeno nel reticolo del serbatoio e migliorando le condizioni di esercizio, ma senza scostarsi molto dai parametri tipici di questa forma di immagazzinamento. Materiali particolari, anche naturali come le zeoliti, presentano un reticolo cristallino altamente poroso che, come certi nanomateriali di sintesi, espone una superficie molto grande in rapporto al volume e alla massa; questi materiali hanno una buona propensione all’adsorbimento di idrogeno di cui catturano gli atomi all’interno di “gabbie”, in misura crescente se si lavora ad alte pressioni e alte temperature. La percentuale in peso di idrogeno catturabile in rapporto al peso della zeolite è però modesta, dell’ordine dello 0,5%, inferiore rispetto alle soluzioni sopra citate.
In conclusione, non stupisce come allo stato attuale dell’arte, gli unici due modelli Fcev recenti, la Toyota Mirai e la Hyundai Nexo, non usano nè serbatoi criogenici, nè zeoliti, nè idruri metallici, ma optano per la soluzione “idrogeno gassoso compresso a 700 bar in bombole”. Nel caso della Nexo si sa che le pareti di ogni bombola, per reggere la pressione, raggiungono i 25 millimetri di spessore, e che le bombole possono resistere a picchi improvvisi di pressione anche di 1575 bar. Nel complesso le 3 bombole della Nexo pesano in tutto circa 110 kg, occupano un volume di 156 litri e immagazzinano fino a 6.3 kg di idrogeno, con un contenuto energetico di circa 210 kWh. Hyundai dichiara una autonomia Wltp di 666 km, dal che si deduce che si percorrono circa 3.2 km/kWh, o che si consumano 315 Wh/km. Per avere un riferimento, l’efficienza delle auto elettriche a batteria attuali, sempre nel ciclo medio di omologazione WLTP, si aggira tipicamente sui 140-150 Wh/km: una efficienza doppia.
Qualora fosse venuto il sospetto che questo sia dovuto alla tecnologia Hyundai, vediamo per confronto i numeri della Toyota Mirai. Qui i tre bomboloni stoccano (sempre a 700 bar) 5.6 kg di idrogeno, corrispondenti a 186 kWh di energia, a fronte di una autonomia dichiarata (attenzione, a norme EPA, non WLTP) di 647 km, il che implica una percorrenza di 3.4 km/kWh o un consumo di 288 Wh/kg. Come si vede, l’ordine di grandezza è lo stesso (anzi, per un confronto più corretto servirebbe che anche per la Mirai il dato di autonomia fosse a norme WLTP).
Evidentemente il rendimento complessivo “dal serbatoio alle ruote” di una Fcev non è stellare, indipendentemente dal marchio. In effetti i valori tipici di rendimento energetico di una pila a combustibile spaziano fra il 40 e il 60%, il resto se ne va allegramente in calore ceduto dallo scarico o dissipato in un radiatore, come su un’auto termica o ibrida, solo sprecandone una minor quantità. Se il sistema fuel cell in questione fosse un impianto stazionario, quel calore potrebbe essere vantaggiosamente catturato e sfruttato per applicazioni come il teleriscaldamento o impianti di cogenerazione, ma a bordo di un veicolo il suo destino è quello di essere sprecato.
Energia richiesta per produrre idrogeno e rendimento del processo
L’idrogeno è altamente reattivo e alle condizioni di pressione e temperatura della superficie terrestre si lega con grande facilità a numerosi altri elementi formando composti chimici fra i quali il più importante è naturalmente l’acqua (in cui è legato con l’ossigeno), ma ci sono anche gli idrocarburi (in cui è legato con carbonio e ossigeno), l’ammoniaca (con azoto), gli acidi e così via. Di conseguenza, anche se è l’elemento più diffuso nell’universo, nell’atmosfera terrestre non è praticamente presente in forma libera. Per poter ricavare energia dall’ossidazione dell’idrogeno, prima dobbiamo procurarcelo in forma libera, dissociandolo da uno dei composti in cui si trova legato. Questa dissociazione richiede di fornire una energia E uguale all’energia di legame che si è liberata quando quel composto si è formato. Successivamente, quando ossideremo l’idrogeno così ottenuto (o usandolo per alimentare una fuel cell, o bruciandolo come normale carburante gassoso in un motore a combustione interna), potremo riottenere l’energia E. Situazione molto diversa da quella degli idrocarburi fossili, che esistono in forma libera, per così dire “pronti da bruciare”, e per i quali l’energia spesa per estrarli, lavorarli e trasportarli, ancorchè non nulla, è piccola rispetto all’energia ottenibile al momento di consumarli in un motore o in una centrale termoelettrica.
Quindi gli idrocarburi fossili presentano un bilancio netto positivo di energia: l’energia che “contengono”, e che si libera bruciandoli, non l’abbiamo dovuta fornire noi, ma l’ha fornita la chimica degli organismi viventi dalla cui decomposizione quegli idrocarburi hanno avuto origine, e in ultima analisi proviene dall’energia solare che attraverso la fotosintesi ed eventualmente la successiva catena alimentare è stata immagazzinata in quei composti. Invece nel caso dell’idrogeno l’energia che si riottiene consumandolo è al massimo uguale all’energia che noi abbiamo dovuto fornire per dissociarlo dai composti in cui si trovava legato. Si tratta di un gioco che in condizioni ideali sarebbe ottimisticamente a somma zero, ma che in realtà, a causa delle energie in gioco per la compressione dell’idrogeno, il suo stoccaggio, raffreddamento, pompaggio, etc., e a causa del rendimento sempre ben inferiore a 1 sia nel caso di impiego in motore a combustione interna sia nel caso di impiego in una fuel cell, risulta un gioco a somma molto minore di zero: in un impianto di produzione idrogeno spendo energia 100 per ricavare idrogeno libero dal composto di partenza che ho scelto e alla fine, dopo compressione, trasporto, distribuzione, stoccaggio presso il distributore, erogazione verso il veicolo e nuovo stoccaggio a bordo dello stesso, dove per ricavarne poi energia elettrica dovrò consumarlo in una fuel cell il cui rendimento è ben inferiore a 1, mi rimarrà un 20-40 di energia utilizzabile a bordo del veicolo: ho perso 60-80 di energia iniziale mia. Se si fa tutto questo complicato processo non è per il gusto masochistico di disperdere energia, ma perchè di questo processo mi interessa l’effetto collaterale di aver potuto trasportare energia da un luogo all’altro, seppure a un costo che è circa doppio dell’energia netta che alla fine ricavo alla fine del trasporto (è come trasportare benzina con una autocisterna bucata che perde benzina per strada e all’arrivo ne scarica solo un terzo di quella che conteneva all’inizio del viaggio). Quindi l’idrogeno non si può considerare una fonte primaria di energia, ma solamente un “vettore energetico”, ossia un modo per trasportare “implicitamente” (ma purtroppo poco efficientemente) energia da un luogo all’altro, esattamente come una batteria.
Naturalmente l’energia 100 che ho speso per dissociare l’idrogeno dall’acqua, dal gas naturale o da altri composti può benissimo averla fornita una fonte rinnovabile, ed è anzi assolutamente auspicabile che sia così (anche se oggi con il mix energetico primario usato in molti grandi Paesi non è così), quindi vedendola da questo punto di vista anche se alla fine mi rimane solo energia 20-40, è comunque “gratis” e si potrebbe pensare che la partita si chiuda in vantaggio… se non ci fossero gli altri problemi di cui stiamo parlando.
Aspetti di carbon neutrality
La produzione di idrogeno può comportare l’emissione di CO2 per due motivi molto diversi: il primo è la possibile non-carbon-neutrality del mix di fonti energetiche scelto dal Paese la cui energia elettrica viene usata per il processo di produzione (fa un’enorme differenza, dal punto di vista delle emissioni climalteranti, usare energia elettrica in Francia, in cui essa è prodotta con un mix di fonti primarie 72% nucleare+21% rinnovabili+7% altro, o in USA, in cui è prodotta al 78% da fossili, di cui quasi metà “sporchissimo” carbone; o peggio ancora in Cina con addirittura il 65% di carbone); il secondo, che si verifica nel caso l’idrogeno si produca non mediante elettrolisi dell’acqua, ma mediante processi fisico-chimici a partire da idrocarburi (il 97% della produzione mondiale attuale di idrogeno avviene così perchè è il modo più efficiente ed economico), come ad esempio il metano, è il rilascio di CO2 generata dall’ossidazione dell’atomo di carbonio della molecola di metano a cui si sono strappati i quattro idrogeni. Si rilascia cioè (seppure in un luogo lontano) la stessa quantità di CO2 che si rilascerebbe se quella stessa molecola di metano venisse bruciata direttamente dentro un motore automobilistico a ciclo Otto, ma con l’aggravante di perdite e inefficienze addizionali nella catena per ricavare idrogeno da quel metano, e poi per far arrivare in quello stesso motore l’idrogeno ottenuto dal metano, anzichè rifornire il veicolo direttamente con il metano. In sostanza, se “estratto” da idrocarburi fossili via pirolisi o reforming, l’idrogeno causa un collaterale rilascio di CO2 anche se l’energia utilizzata fosse al 100% da rinnovabili. Quindi, se estratto da idrocarburi, l’idrogeno oltre a essere un vettore energetico è anche, di fatto, un vettore di emissioni climalteranti: le emissioni CO2 dovute alla dissociazione dell’idrocarburo (trascurando, si noti bene, le possibili emissioni dovute alla eventuale produzione da fonti non rinnovabili dell’energia occorrente per alimentare il processo) si spostano laddove l’idrogeno viene prodotto, ma non si eliminano.
Un momento, e se estraessimo l’idrogeno dall’acqua mediante elettrolisi? Non ci sarebbe liberazione locale di CO2. Tuttavia oggi questa strada è la meno usata per la produzione di idrogeno perchè inefficiente: per ottenere 1 kg di idrogeno dalla cui combustione/ossidazione potrò ottenere circa 33 kWh di energia, servono come minimo 50-55 kWh di energia (valore riferito ai più efficienti processi industriali di elettrolisi, che hanno un’efficienza del 70-80%); quindi si spende più energia per scindere la molecola d’acqua nell’impianto di produzione d’idrogeno, rispetto a quanta energia se ne possa ricavare a bordo del veicolo ricombinando con ossigeno l’idrogeno, riottenendo acqua in un altro luogo. Per completezza aggiungiamo che per comprimere a 700 bar l’idrogeno ottenuto, per poterlo trasportare al distributore o caricare nelle bombole dell’auto, occorrono all’incirca ulteriori 15 kWh per kg. Insomma, per estrarre dall’acqua e far arrivare a bordo dell’auto 33 kWh di energia sotto forma di 1 kg di idrogeno disponibile per reazioni chimiche, di kWh se ne sono spesi 65-70. E una volta a bordo del veicolo, ci si mette poi la fuel cell, con il suo rendimento che in condizioni reali di guida è largamente inferiore a 1, ad aumentare ulteriormente il dispendio energetico. Ricordando che l’idrogeno ha un ruolo di “vettore energetico”, con cui “trasportiamo” energia, è come se per trasportare qualcosa che vale 1 il “biglietto di viaggio” costasse altrettanto, o anche di più.
Sembra proprio di poterne concludere che qualunque origine, anche perfettamente rinnovabile e carbon-free, abbia quell’energia, non se ne sta certo facendo l’uso più efficiente se la si consuma copiosamente per produrre idrogeno dall’acqua per via elettrolitica, per poi comprimerlo a 700 bar, trasportarlo, stoccarlo, distribuirlo al veicolo, consumarlo a bordo in una fuel cell e finalmente con l’elettricità ottenuta muovere un motore elettrico.
Trasporto dai luoghi di produzione ai luoghi di utilizzo, vendita, distribuzione
Realizzare ex novo una rete di idrogenodotti estesa e capillare quanto quella degli attuali metanodotti e affiancata ad essa, a parte i costi esorbitanti e i tempi lunghi, sarebbe quasi certamente impraticabile, considerando ad esempio le cronache sulle polemiche per l’approdo del gasdotto TAP a Melendugno. I leggendari metodi ultrarapidi di Enrico Mattei per creare reti gas oggi sarebbero applicabili solo in Cina (e solo se ad applicarli fosse il governo cinese).
Convertire la rete di metanodotti per trasportare, invece di metano, idrogeno, ammesso che fosse tecnicamente fattibile senza eccessivi stravolgimenti e costi, metterebbe improvvisamente fuori gioco i milioni di dispositivi di utilizzo finale (domestici e industriali) collegati alla rete, che oggi sono progettati per bruciare metano.
Mettere in circolazione una flotta sufficientemente numerosa di autocisterne speciali per il trasporto di idrogeno (pressioni di 700 bar o più), oltre a richiedere tempi e investimenti di entità facilmente immaginabile, desterebbe comprensibilmente preoccupazioni per la sicurezza.
Produzione dell’idrogeno presso i distributori stessi
Perchè trasportare l’idrogeno? Potremmo produrlo vicino ai luoghi di utilizzo; nel caso delle auto, in ogni area di servizio.
Se si usa energia elettrica per azionare un impianto elettrolizzatore installato presso un ipotetico distributore d’idrogeno del futuro, valgono (oppure non valgono) le stesse obiezioni che generalmente vengono rivolte all’ecosistema delle auto elettriche a batteria, relativamente alla produzione della corrente per le colonnine di ricarica. Con l’aggravante che l’elettrolisi ha un rendimento basso, intorno al 70% con tecnologia attuale, e produrre per via elettrolitica la quantità di idrogeno che occorre a un distributore per soddisfare una domanda equivalente a quella degli attuali veicoli a benzina/gasolio che visitano in una giornata media una stazione di servizio richiederebbe di avere a disposizione una potenza elettrica enorme: produrre per via elettrolitica (assumendo rendimento 70%) la quantità di idrogeno energeticamente equivalente a 1 litro di benzina richiede circa 13.5 kWh. L’erogato medio annuo di una stazione di servizio di idrocarburi liquidi in Italia è di circa 1.3 milioni di litri (fonte Assopetroli), ossia circa 3500 litri al giorno, ossia circa 300 litri/ora (assumendo 12 ore di orario di apertura), il che richiede un prelievo medio di 4 Megawatt costanti dalla rete elettrica, da parte di ogni stazione di servizio “media” del futuro. Servirebbe attuare una gigantesca opera di irrobustimento della rete elettrica per questo (e a quel punto sempre più persone si chiederebbero se non sarebbe più semplice e logico usare l’aumentata disponibilità periferica di potenza elettrica per connettere direttamente delle colonnine di ricarica fast).
Se l’energia elettrica viene usata per un processo di steam reforming anzichè per una elettrolisi, le considerazioni energetiche non cambierebbero molto come ordine di grandezza, e in aggiunta andrebbe considerato l’impatto (rumore, temperatura, rischi, oneri di manutenzione) di collocare un impianto di steam reforming in ogni stazione di servizio. Inoltre l’impianto di steam reforming, oltre a consumare energia, necessiterebbe di un allacciamento alla rete gas (che oggi non tutti i distributori hanno) per ottenere il metano a cui applicare il processo, e infine genererebbe localmente emissioni di CO2 causate dall’atomo di carbonio liberato dalla scissione della molecola di metano.
Generazione di ossidi di azoto
Se l’idrogeno, comunque lo si sia ottenuto, viene usato come carburante gassoso per un classico motore a combustione interna, bisogna valutare quali emissioni inquinanti produce la sua combustione.
Spesso si sente ripetere che l’idrogeno è pulitissimo perchè la sua combustione produce (localmente) solamente vapore d’acqua. Questo sarebbe vero se l’idrogeno venisse bruciato con ossigeno puro. Siccome però in un normale motore automobilistico l’idrogeno viene bruciato con aria, in cui solo il 20% circa è ossigeno mentre quasi l’80% è azoto, e in un motore a combustione interna il processo avviene ad alta temperatura, in quelle condizioni anche l’azoto presente in camera di combustione reagisce con l’ossigeno formando indesiderabili ossidi d’azoto, esattamente come farebbe lo stesso motore alimentato a benzina, metano, GPL o gasolio. Gli ossidi d’azoto infatti non si formano perchè contenuti nel combustibile, nè perchè il combustibile “è brutto e cattivo”, ma perchè l’aria contiene naturalmente azoto e nel motore endotermico, anche se alimentato da idrogeno, si raggiungono temperature elevate, alle quali anche l’azoto comincia a ossidarsi. Per ridurre all’origine la generazione di ossidi di azoto occorrerebbe limitare la temperatura raggiunta nella camera di combustione, ma siccome a volume costante la temperatura e la pressione sono grosso modo proporzionali, ciò ridurrebbe in pari misura la pressione media effettiva sul pistone, il che significherebbe abbassare la potenza specifica del motore; per mantenere la potenza invariata, si dovrebbe compensare questo calo aumentando la cilindrata; il motore diventerebbe più pesante e ingombrante, con più attriti interni, per produrlo si dovrebbe fondere più metallo, consumando più energia, la quale andrebbe prodotta,….
Per ridurre a valle gli ossidi di azoto si usano invece catalizzatori simili a quelli delle attuali auto a benzina. Certo impressiona un pò dover applicare, a un motore endotermico alimentato a idrogeno, un catalizzatore per abbattere le sue emissioni di NOx, dato che è molto diffusa la convinzione, un po’ semplificata, che “l’idrogeno è pulito”.
Difficoltà di notare una fuga di idrogeno
Si tratta di un gas trasparente, inodore e non tossico. La sua fiamma è praticamente invisibile alla luce del giorno.

Alta infiammabilità
L’energia di accensione è quasi 15 volte più bassa di quella del metano. Inoltre l’idrogeno può infiammarsi in una gamma di concentrazioni gas-aria molto più ampia di quella di idrocarburi come il metano, quindi la probabilità che ricorrano le condizioni perchè possa accendersi è molto più alta. Inoltre, se brucia, lo fa con fiamma pressochè invisibile. La velocità di propagazione della fiamma è parecchie volte maggiore di quella degli altri idrocarburi, come pure la velocità di diffusione in aria. A pressione ambiente la temperatura alla quale l’idrogeno prende spontaneamente fuoco senza bisogno di inneschi è di circa 585 gradi.
Bassa densità di potenza delle celle a combustibile
Quando parliamo di un’auto Fcev alimentata a idrogeno, oltre al peso e all’ingombro delle bombole dobbiamo considerare il peso e l’ingombro della fuel cell, necessaria per convertire l’energia chimica dell’idrogeno in energia elettrica sfruttabile finalmente dai motori elettrici. E, come sulle ibride termiche attuali, è sempre presente anche una batteria, sia per poter implementare la frenata rigenerativa sia per dare una mano alla Fuel cell quando è momentaneamente richiesta una elevata potenza per una accelerazione o un sorpasso. Quindi il bilancio peso/potenza del powertrain di una FCEV va ben oltre il semplice quoziente “energia chimica dell’idrogeno / peso delle bombole”, e lo stesso vale per il volume occupato. Vi sono pompe e riduttori di pressione per alimentare la fuel cell con l’idrogeno; un sistema di raffreddamento/riscaldamento della fuel cell per mantenerla in condizioni ottimali; particolare importanza riveste poi il sistema di filtrazione (oltre al pompaggio e pressurizzazione) dell’aria aspirata, in quanto la fuel cell, al cui interno deve penetrare l’aria per reagire con l’idrogeno, non deve deteriorarsi a causa di fuliggine, particolato o altro pulviscolo aspirato in entrata.
Pur essendo migliorate rispetto alle celle di generazione precedente, tuttora riempiono il cofano con il loro ingombro simile a quello di un motore termico (e così precludono la possibilità di avere un “frunk”) eppure generano “solo” 100-130 kW nei modelli attuali. Per quanto riguarda la potenza della fuel cell della Nexo, è di 95 kW. Vi è poi una piccola batteria da 1.5 kWh in grado di erogare una potenza di 40 kW per brevi periodi. Il motore è da 120 kW, ossia meno della somma delle due fonti di potenza (40+95=135) il che significa che non vi è l’intenzione di usarle entrambe a pieno regime, anche per le loro diverse attitudini costituzionali: la batteria è più adatta ad erogare improvvisi picchi di potenza, la fuel cell a lavorare a regimi più stazionari. La velocità massima è limitata a 175 km/h. Qualunque velocità superiore a 130 km/h è legalmente superflua in Italia; tuttavia questa limitazione, che non è certo stata introdotta per masochismo, dà l’idea che esistano limiti termici e/o di potenza che il powertrain nel suo complesso può sopportare per lunghi periodi.
Il powertrain della Hyundai Nexo con la posizione delle 3 bombole di idrogeno, la batteria da 1.5 kWh e la fuel cell. Sollevando il cofano anteriore non si trova un frunk, ma un vano occupato completamente dalla fuel cell e dai suoi sistemi collaterali (pompe, filtri, riscaldatore,..)
Immagine di apertura: “Super futuristic GM hydrogen car” by John Mahowald is licensed under CC BY 2.0