Auto, Italia verso accordo con Dongfeng: Stellantis e USA contrari

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Arditti (Formiche) sul logo blu dell'Aria che Tira
Roberto Arditti (Formiche) sul logo blu dell'Aria che Tira

La politica industriale che il Governo italiano sta mettendo in piedi nel mondo delle auto è stata oggetto di un bel segmento della trasmissione l’Aria che Tira, quest’anno condotta da David Parenzo. Nell’occasione gli ospiti principali sono stati Federico Fubini (Corsera) e Roberto Arditti (Formiche). Ne riportiamo qui una sintesi ragionata, aggiungendo qualche considerazione all’ottimo dibattito tra i due esperti.

La capacità produttiva italiana è di circa un milione di automobili e 4/500 mila veicoli commerciali all’anno. Nell’ultimo decennio abbiamo perso una generazione nella tecnologia delle auto, perdendo focus sulla parte siderurgica ed elettrica, facendo confusione energetica e subendo gli scossoni dati da semiconduttori, batterie e ambiente.

Italia, capacità di 1,4 milioni di veicoli all’anno

Finora siamo rimasti ancorati alla trattativa con quella che una volta era la Fiat e che ora in parte è diventata Stellantis. “Partendo da ipotesi difficilmente raggiungibili in toto, Stellantis aveva promesso di costruire in Italia un milione di veicoli, senza specificare se commerciali o automobili: anche nel migliore degli scenari, quindi, resterebbe inutilizzata una capacità produttiva di 4/500 mila veicoli”, ha detto Fubini. Stellantis ha chiuso un accordo con la cinese Leapmotor: da settembre queste auto arriveranno in nove Paesi europei, tra i quali lʼItalia, con una rete di 200 venditori. I punti vendita arriveranno a 500 entro il 2026. Vedremo come si dipanerà la questione.

Ma un’altra situazione è emersa nella politica industriale del nostro Paese. All’Italia serviva un ulteriore partner per sfruttare la parte di capacità produttiva non usata da Stellantis, a partire da 400 mila fino anche all’intero lotto da 1,4 milioni di veicoli. Ed ecco la trattativa avanzata con Dongfeng, azienda cinese pubblica al 100% con un fatturato 2023 di 1,5 miliardi di euro (12BY) contro i 190 B€ di Stellantis, anche se le cifre non sono direttamente confrontabili per le diverse aree geografiche di riferimento. “L’idea è di usare quattro impianti italiani, probabilmente in affitto, mettendo a disposizione il porto di Taranto o il porto di Brindisi”.

Federico Fubini (Corsera) all'Aria che tira
Federico Fubini all’Aria che tira

Contro questa idea si sono sollevati sia Stellantis, sia gli Usa. Tavares, amministratore delegato di Stellantis, ha detto che “chi apre ai cinesi sarà responsabile delle decisioni impopolari che potremmo prendere, e potrebbero esserci vittime”, probabilmente riferendosi ad ulteriori tagli produttivi.

Il portavoce del Segretario di Stato Usa (quel segretario è equivalente al nostro Ministro degli Esteri, ndr) Anthony Blinken ha ribadito che “sarebbe meglio una strategia comune tra alleati; inoltre, l’Italia deve fare molta attenzione ai dati sensibili nazionali che possono essere spostati partendo da pratiche commerciali”.

Certamente se Stellantis o gli Usa o la stessa Unione Europea avessero voluto, avrebbero potuto facilitare direttamente un reimpiego tra alleati della forza produttiva italiana, ma niente hanno fatto. E viene alla memoria anche il piano economico detto la via della seta, a suo tempo proposto dalla Cina a molti Paesi con l’entusiastica adesione dell’allora governo italiano e poi formalmente cancellato dal governo attuale. C’è da chiedersi se l’attuale ipotesi di accordo con un’azienda statale cinese sia collegata alla seta, che molto era legata proprio al controllo dei porti.

Costo economico e costo politico

Certamente la questione è complessa. In un periodo di logica dei blocchi contrapposti, ad esempio USA contro Cina, tutto questo avrà certamente un forte prezzo politico. “Qual è il prezzo politico che siamo disposti a pagare noi italiani per il ritardo tecnologico industriale che abbiamo?”, si chiede Arditti?

Qui si parla di esportare auto complete, non solo motori o kit, affidando alla nazione ospitante la produzione delle scocche o altro. Le batterie ovviamente verranno dalla Cina, mentre l’Unione Europea prova a fare qualcosa. Inoltre i chip automotive, che in Italia si fanno e ora si stanno sovvenzionando e migliorando, sono un altro esempio di tecnologia sulla quale la Cina sta producendo risultati straordinari per qualità e quantità.  Oggi le automobili sono assemblaggio di molte cose: assemblare qui significa riportare in Italia almeno una parte della catena del valore.

Attenzione ai porti

“Quello che sta succedendo adesso non è assolutamente ovviamente frutto dell’improvvisazione, ma un piano che hanno costruito negli anni: i cinesi stanno costruendo porti adatti alle esportazioni di auto da più di cinque anni”, ha ribadito Fubini.

La questione dei porti è rilevantissima. Queste strutture sono al centro della trasformazione digitale dell’Europa e della sua cybersicurezza. Il sistema logistico italiano sta rispondendo, attuando le nuove direttive europee: eFTI (Electronic freight transport information), Nis (Network and Information Security) 2, Nmsw (National Maritime Single Window), Icmr (International Carriage of Merchandise by Road) e ovviamente il Pnrr che finanzia parte di queste. I porti sono un’infrastruttura estremamente rilevante e sensibile, tanto che il presidente Biden ha destinato 20 miliardi di dollari alla sostituzione di gru portuali di origine e software cinese, altri dispositivi che – in quanto connessi in rete – possono facilmente esportare dati sensibili.

Il ‘900 è finito da un pezzo

La Cina è un pericolo e gli alleati non si alleano, ma la gente deve lavorare. “Io credo che si debba lavorare anche con i produttori cinesi”, dice Artitti; “bisogna uscire dall’illusione di fine Novecento, quando in Italia e in Europa abbiamo ritenuto che si potessero vendere milioni di automobili senza produrle in loco, dimenticando che molte auto sono state vendute alle persone che lavoravano in quelle aziende: nel mondo economico, l’idea di non produrre ma avere i soldi per comprare non funziona”.

Una soluzione senza rischi, insomma, non esiste.


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